Il 28 maggio del 1982 i Roxy Music di Bryan Ferry pubblicano l’ultimo capitolo della loro vicenda artistica, Avalon, un disco che ha spaccato la critica e unito il pubblico come solo le grandi opere d’arte sanno fare – e forse mai come nel loro caso la parola “arte” è stata più adatta a descrivere un gruppo musicale.Secondo il critico Simon A. Morrison – che al disco ha dedicato un intero saggio – tutta l’opera della band può essere ascritta alla corrente estetico-filosofica del modernismo angloamericano e Bryan Ferry nominato d’ufficio un «modernista dei giorni nostri». Per quanto la categoria critica del modernismo sia caratterizzata da un certo grado di vaghezza e ambiguità, qualunque sia il suo campo di applicazione – dall’architettura alla letteratura fino alla pittura e all’arte concettuale moderna – al centro c’è sempre una volontà di forzare i limiti della costruzione estetica tradizionale, spingendoli un po’ più in là. «Make It new» era la famosa ingiunzione del poeta Ezra Pound e i Roxy Music l’hanno presa alla lettera fin da subito. La band, infatti, nata dall’incontro tra tre studenti d’arte (Bryan Ferry, Brian Eno e Andy Mackay), era stata concepita per essere essa stessa un’opera d’arte che fondesse musica, moda e arte visuale in qualcosa di mai visto e mai sentito prima. Dall’abbigliamento alle iconiche copertine dei loro dischi – memorabile quella con Amanda Lear che porta al guinzaglio una pantera – nulla è mai stato lasciato al caso nella costruzione estetica della band, che all’inizio sembrava provenire da un pianeta alieno, tant’è che all’epoca qualcuno li descrisse come dei «rocker di fine anni ‘50 innamorati di Star Trek».Anche dal punto di vista strettamente sonoro è difficile, se non impossibile, trovare nel decennio precedente al loro esordio qualcosa di simile all’art pop sofisticato dei primi Roxy Music, quando al fianco del loro leader c’era ancora il “non musicista” Brian Eno a dirigere il suono lungo imprevedibili strategie oblique. A dire il vero, i Roxy Music utilizzavano anche gli stilemi del passato, rinnovandoli e rimodellandoli, però, in una maniera che risultava essere sempre nuova e straordinariamente originale: non a caso il brano d’apertura del loro disco d’esordio si intitolava, appunto, Re-Make, Re-model. Simon Reynolds provò a definire tutto questo come “retrofuturismo visionario”, mentre Brian Eno disse che i Roxy Music «guardavano al passato in maniera kitsch e tentavano di immaginare il futuro […] forse in maniera altrettanto kitsch».
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